martedì, giugno 30, 2009

elegante sepolcro

Si preannuncia un'altra giornata afosa.

Di già che eravamo al mare, abbiamo fatto un salto a Genova. E di già che eravamo a Genova, abbiamo fatto un salto alla mostra su De André.
Qualcuno me ne aveva parlato bene, qualcuno male. Dipende se uno ci trova quel che ci voleva trovare, oppure no... e io francamente non sapevo bene cos'è che cercavo. Col senno di poi però ho capito cosa avrei voluto da una mostra sul mio cantautore preferito di sempre... e direi che non l'ho trovato.
Andiamo per esclusione. I cimeli non mi interessano un granché. Ok che adoro Faber, ma vedere la sua giacca o la sua chitarra mi lascia abbastanza freddo. Per quanto riguarda gli appunti, le pagelle, le lettere di Natale di quand'era bambino... sì, possono stuzzicare una certa curiosità feticista... però, alla fine della fiera, sono cose che può essere carino serbare in un libro, ma chi ha voglia di mettersi lì a spulciarle in piedi nella penombra della sala? Io no... quindi niente. I video dei tarocchi erano piuttosto kitsch, e il giochino multimediale una menata. Poi c'era la storia dei vinili che mettevi su un tavolo e ti comparivano i commenti video di chi ci aveva lavorato, ecc... questo era già molto più interessante, e si avvicinava a quel che cercavo io in questa mostra, però uno non è che può mettersi a fare avanti e indietro attorno a un tavolo e guardarseli tutti (oltretutto l'audio era un po' confuso), mentre gli altri dietro ti mettono il fiato sul collo. Idem per la storia delle foto trasparenti. Resta infine il video con le interviste e gli speciali TV... ne abbiamo visto un bel pezzo, approfittando del fatto che Pietro dormiva nel suo passeggino, al fresco in un angolo della sala proiezioni, tranquillo e beato. Questa era di gran lunga la cosa più interessante, anche se credo la si possa trovare anche in un DVD che ho adocchiato nel negozietto all'inizio della mostra.
In conclusione, a me interessavano più che altro le testimonianze, i resoconti dello stesso Fabrizio e di chi altro c'era, di chi ha partecipato alla genesi degli album, di chi ha ispirato le canzoni. Tutte cose che forse è meglio cercare nei libri, nei video, e negli stessi CD, e non in una mostra un po' fighetta.
Di sicuro ho visto più De André camminando per le viuzze forse un po' laide ma piene di vita che da Piazza Principe scendono al porto vecchio, che non in quell'elegante e freddo sepolcro.

sabato, giugno 27, 2009

supplizio

Sporadici tuoni, sporadiche cannonate.

L'altro ieri sono andato a farmi togliere il neo di cui avevo già parlato qualche tempo fa. L'operazione in sé è stata breve e indolore, ma purtroppo ho dovuto aspettare tre ore sul pianerottolo dell'ospedale perché nel primo pomeriggio c'era stata una lunga operazione urgente che aveva fatto slittare tutte le altre. Ho maledetto me stesso per non essermi portato qualcosa da leggere, ma fortunatamente avevo dietro l'iPod. Ciò non mi ha tuttavia risparmiato completamente dal supplizio delle stronzate e dei luoghi comuni sparati dagli altri pazienti innervositi dall'attesa. Eccone un piccolissimo campionario:

"Eh, ma qui mica siamo in America!"

"Ah, ma se gli mandassimo Striscia, vedi che casino che fanno qui dentro!"

"È tutto in mano agli ebrei".

Fortunatamente, il tizio che ha imprecato tra i denti contro l'infermiera invitandola a darsi una mossa è passato prima di me. L'idea che mettesse fretta al medico mentre ero sotto i ferri non mi garbava un granché.

giovedì, giugno 25, 2009

genio

Più afa rispetto al mare.

L'altra sera ho finito di leggere Delitto e castigo. Romanzo straordinariamente bello, e non c'è certo bisogno che arrivi io da Canale, a dirlo. Francamente non pensavo che mi rapisse così tanto, ma soprattutto non mi aspettavo di trovarvi un intermezzo comico-surreale, per quanto il suo artefice non sia certo Dostoevskij.

Mi spiego:
Arrivato a pagina 634 dell'edizione uscita con Repubblica qualche anno fa, il celebre romanziere russo scrive:

Svidrigàjlov la conosceva, quella bambina; quella bara non aveva né un'immagine, né candele accese e non si sentivano preghiere. Quella bambina era una suicida, un'annegata.

Di per sé, fa tutto meno che ridere. Però la frase termina con una nota, in particolare la nota n.43.
Io non è che di solito mi metta a leggere tutte le note in un romanzo, però questa era a piè di pagina, quindi saltava abbastanza all'occhio per la sua brevità e perché in essa c'era evidentemente qualcosa che non andava.
La nota diceva:

oioioiioioioioi?????????????

Ora, io non so chi sia il genio che ce l'ha messa, ma vorrei tanto conoscerlo e stringergli la mano.

venerdì, giugno 19, 2009

ken tanaka loves you

Post programmato... dite voi che tempo fa!

Qualche tempo fa, sono capitato per caso nei video che vedete qui sotto. Li ho guardati e mi hanno fatto ridere. Francamente non so se possano avere lo stesso effetto su qualcuno che non ha studiato giapponese, non è stato in Giappone o non conosce dei giapponesi. E mi chiedo inoltre se un giapponese li trovi simpatici o invece si possa offendere. Cercando su Youtube, ho visto che c'erano un sacco di video dello stesso tizio, tale Ken Tanaka... una specie di incarnazione di un personaggio di Andy Kaufman. Ne ho guardato qualcuno... alcuni erano interessanti, spesso divertenti. Nel primo video, Ken Tanaka racconta la sua storia, e ci dice che è di origini americane ma è stato adottato da piccolo da una coppia giapponese, per cui è un giapponese a tutti gli effetti, tranne che per l'aspetto. L'obiettivo dei suoi video, che si svolgono tra America e Giappone, sarebbe proprio la ricerca dei suoi veri genitori. Io, che sono notoriamente un boccalone, ovviamente in un primo tempo ci ho creduto nononstante l'assurdità delle premesse (anzi, forse proprio perché era fin troppo assurdo per essere falso), e romanticamente mi sono lasciato coinvolgere dalla storia. Del resto, il finto accento con cui Ken parla inglese è davvero molto molto simile a quello di un giapponese medio che parli inglese. Alla fine però ho scoperto la sua vera identità... si tratta di tale David Ury, un americano che si è trasferito in Giappone, dove ha anche lavorato nel mondo della televisione. Una volta rotto l'incantesimo, devo dire che il mio interesse è scemato, per quanto questa surreale operazione sia tutto sommato piuttosto divertente, pur trattandosi soltanto di una presa in giro con alcuni debiti verso Kaufman.

Ad ogni modo, ecco il suo video di risposta per tutti quelli che sostengono che Ken Tanaka sia in realtà David Ury. :)



lunedì, giugno 15, 2009

hikaru

Post programmato... ditemi voi che tempo fa.

In ormai quasi tre anni di blog, ho scritto pochissimo a proposito del mio lavoro. Francamente nemmeno a voce ne parlo più di tanto, perché non so a quanti conoscenti e amici possa interessare (salvo gli appassionati di manga, ovviamente... e in definitiva non ne conosco poi molti). Per questa volta, però, farò uno strappo alla regola.
La settimana scorsa ho terminato una serie che avevo iniziato circa quattro anni fa, forse la serie a cui mi sono maggiormente affezionato nel corso degli anni. Non saprei dire se è il manga migliore che io abbia mai tradotto, ma di certo fa parte della rosa dei miei cinque preferiti ed è quello su cui è stato più bello lavorare.
Il nome di questo manga è Hikaru no go. L'autrice dei testi è Yumi Hotta, mentre i disegni sono di Takeshi Obata (famoso per aver disegnato l'assai più celebre Death Note).
Hikaru no go (letteralmente "Il go di Hikaru") è uno shonen manga tutto incentrato sul go, un antico gioco da tavolo, ed è sostanzialmente una storia di formazione che si svolge nell'arco di ventitré volumi, nel corso dei quali il protagonista cresce poco alla volta (all'inizio della storia frequenta la sesta elementare, mentre alla fine ha ormai quindici anni) e matura di conseguenza, esperienza dopo esperienza. Hikaru, questo è il suo nome, è un ragazzino vispo, impulsivo, non troppo studioso e senza peli sulla lingua... ovvero, almeno in apparenza, quanto di più lontano dal mondo del go, un gioco che necessita concentrazione, riflessione e dedizione. L'incontro tra due universi così distanti avviene grazie a Sai, lo spirito di un maestro di go dell'epoca Heian precedentemente incarnatosi in Shusaku Honinbo, giocatore realmente esistito vissuto in epoca Tokugawa. Dopo aver vissuto per oltre cento anni in un goban (la tavola su cui si gioca a go) che Hikaru trova nella soffitta di suo nonno, Sai si risveglia impossessandosi del ragazzo.
Le premesse forse non invogliano alla lettura: un gioco ai più sconosciuto e incomprensibile, un ragazzino per protagonista come in una valanga di altri manga giapponesi, un meccanismo, quello dell'apparizione del fantasma, all'apparenza un po' forzato.
E invece questo fumetto riserva delle sorprese.
Perché Hikaru no go è un manga bellissimo, capace di andare molto più in profondità di quanto si possa intravedere in superficie. Ciò è merito soprattutto delle capacità di scrittura dell'autrice, che riesce a tratteggiare con grazia unica i personaggi modellandoli poco a poco attraverso l'intreccio, il tutto con sublime scorrevolezza (e vi assicuro che per un traduttore è un'autentica gioia). Hotta mescola con maestria la vibrante tensione delle partite all'umorismo dei siparietti che si aprono tra Hikaru e Sai, entrambi personaggi adorabili ai quali ci si affeziona presto. Ma è soprattutto la capacità d'introspezione dell'autrice a fare la bellezza di questo manga, la sua abilità nel dirci cose sui personaggi, anche su personaggi minori o di contorno, senza dircelo o mostrarcelo. In particolare ho amato il modo in cui sono espressi i sentimenti delle persone che circondano Hikaru: quelli della madre, incredula della crescente passione del figlio per un gioco che lei non capisce, e poco considerata dal figlio, tutto preso dalla sua passione e ritratto in un periodo della vita, l'adolescenza, in cui lo spazio dedicato alle madri si riduce bruscamente; quelli di Akari, la compagna di classe e amica d'infanzia che evidentemente prova un sentimento per Hikaru che questi non riesce a vedere e comprendere, anche se tutto ciò non ci viene mai descritto, mostrato, espresso esplicitamente; quelli di tutti gli amici e compagni di gioco che Hikaru si lascia dietro, man mano che la sua abilità cresce; quelli di Sai, il cui ardente desiderio di giocare a go viene spesso frustrato dall'egoismo di Hikaru (e solo quando tale desiderio verrà appagato, il ragazzo si renderà conto di quanto Sai sia importante per lui). La bellezza del go e le migliori qualità del protagonista ci vengono così mostrate insieme all'altra faccia della medaglia, ovvero tutto ciò a cui si rinuncia, quando ci si dona con passione a qualcosa.
Il lettore può benissimo non capire nulla del gioco, per quanto l'intreccio si basi rigorosamente su di esso. Io stesso, dopo averne tradotto ventitré volumi, non ho ancora capito un granché del go, eppure mi sono emozionato tantissimo, leggendo e rileggendo questo manga. Il merito va anche ai disegni di Obata, che crescono in eleganza di pari passo con la crescita di Hikaru (tanto che il primo e l'ultimo numero sembrano quasi disegnati da due persone diverse). Insomma, veramente un fumetto ben fatto, capace di non scadere mai nel banale sia nello svolgimento dell'intreccio, sia nella sua raffigurazione, sia nella caratterizzazione dei personaggi, che ci appaiono perfettamente umani e plausibili. Sebbene gran parte dell'opera si basi sulla rivalità tra Hikaru e il coetaneo Akira, tale rivalità non prende mai le forme di uno scontato manicheismo, ma si trasforma con naturalezza in rispettosa amicizia col passare del tempo, com'è ovvio che sia per due ragazzi che si conoscono da anni e condividono una passione. Non è quindi una rivalità destinata ad approdare a un risultato, ma a creare un rapporto dinamico e duraturo che non si limita a trovare una soluzione nell'esito di una partita o di un torneo.
Insomma, più che un manga su un gioco da tavolo è un manga sulle persone, sulla vita, sulle relazioni, sulle scelte, sulla crescita. E di tutti questi aspetti, Hikaru no go riesce a cogliere un'universalità che lo fa andare molto oltre i cliché del manga per ragazzi.
Ve lo consiglio di cuore.

venerdì, giugno 12, 2009

you're the measure of my dreams

Lo stesso caldo di cinque anni fa.

Cinque anni fa, a quest'ora, mi stavo preparando per il mio matrimonio. Non ricordo un granché di quel che feci prima che i miei mi portassero a Mombirone. Poi lì tanti amici, tante persone a cui volevo e voglio bene. Silvia che arriva bellissima nella sua semplicità, com'è sempre piaciuta a me. L'ingresso in chiesa sotto le note di Love me do (thanks Gemme & C.). Quel caldo mostruoso. Il mio completo gessato marrone che ho voluto così perché mi ricordava Robert Redford ne La stangata. Almeno, io me lo ricordavo così. Da piccolo l'avevo visto tante volte, ma non so se davvero portasse quel completo. Poi duecento ore sul piazzale rovente di Mombirone, a posare per ogni singolo invitato, perché non avevamo chiamato nessun fotografo ufficiale, né volevamo registi di matrimoni. I girasoli. Le bomboniere, che avevamo disegnato a mano una diversa dall'altra, nei (pochi) ritagli di tempo. E la festa, che bella la festa. Il mega-pacco ikea dei miei ex-compagni di classe. Ivan già ubriaco agli antipasti che camminava sul tavolo. Io che squarcio la torta in due come un samurai, senza sapere che il taglio della torta in realtà non si fa, che è solo una finta per la foto. Vaga che si prende una sberla da Zia Enza. Rambo in vestimenta che si addormenta sul cartone come un barbone. I Mishkalé. E poi la festa all'Ozio fino alle otto di mattina con gli ultimi amici. Le foto come i quadri. La caipirinha alla fragola con cui sempre Rambo s'era scritto LOVE sulla canotta. Poi il mattino che sorge, la sensazione strana di dormire per la prima volta in Piazza Marconi.
Sembrano passati centomila anni. Avevamo ventisei e ventiquattro anni, ma a riguardarci ora sembravamo dei ragazzini. Che bello, però.

lunedì, giugno 01, 2009

il crepuscolo degli edifici scolastici

Siamo tornati un po' indietro.

Ieri sera mi è venuta in mente un cosa.
Io ho frequentato l'asilo dalle suore, anche perché credo che al tempo non ci fosse lo statale, a Canale. L'asilo si trovava nel vecchio palazzo che ora ospita la prestigiosa Enoteca del Roero, e pochi anni più tardi fu spostato in un edificio dall'aspetto assai più moderno.
Per quanto riguarda le scuole medie, non le ho fatte nell'edificio principale in cui avevo già frequentato le elementari, e in cui si trovavano le sezioni A e B (e forse parte della C). No, io andavo alle cosiddette "scuole vecchie", un palazzo molto più vissuto adiacente al Comune. Poco tempo dopo, o forse proprio l'anno in cui passai alle superiori, anche la mia sezione, la D, fu spostata nelle "scuole nuove", e il vecchio edificio ha poi assunto nel tempo funzioni assai diverse (ora ci torno quando si vota, in quanto il mio seggio si trova proprio nella classe in cui frequentai la terza).
Poi ho pensato che anche al Liceo ho vissuto una situazione simile. Ho frequentato la prima, la terza e la quarta in Località Serre, un edificio un po' decrepito ma magnificamente immerso nel verde. Poi la seconda in un (credo) ex-carcere di Alba, all'inizio di C.so Piave. Infine, la quinta l'ho fatta in centro, perché ci siamo scambiati la sede con l'Artistico. Ora l'edificio di Località Serre è stato abbattuto, credo, o comunque è abbandonato e fatiscente (siamo andati a fare una capatina un paio d'anni fa con qualche ex compagno di classe, in occasione del matrimonio di Rambo... e ci è parso tetro e desolante). L'ex-carcere non so cosa sia ora, mentre l'istituto in centro è tornato all'Artistico.
Per finire, ho pensato che in effetti anche all'Università è andata più o meno in maniera simile. Durante i miei primi (credo) tre anni di Università, il Dipartimento di Orientalistica era situato sul retro di Palazzo Nuovo, un corridoio a cui si accedeva da una porticina circondata da perenni impalcature e lavori in corso. Il marciapiede e quel po' di aiuola che si stendevano lì davanti svolgevano contemporaneamente la funzione di cesso di tutti i cani di Torino. Nell'ultimo anno, però, pure il Dipartimento è stato spostato in un luogo migliore, e ora non so cosa ci sia in quel luogo deprimente e quasi privo di finestre.

Com'è che, elementari a parte, mi sono trovato a studiare sempre in posti la cui parabola vitale era ormai giunta al crepuscolo?
È un segnale che mi dice che sono nato in anticipo? Porto sfiga ai luoghi in cui passo? Oppure c'è dietro qualche altro significato nascosto?
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