lunedì, luglio 06, 2009

black riders, ovvero il bello di essere adolescenti e stare su un palco

Afa e asfalto bagnato del giorno prima.

L'estate è iniziata, e con essa fioccano le varie sagre di paese nei dintorni. Ora che Pietro è più grandicello, sarebbe un peccato non approfittare di questo periodo vivace, dopo il lungo e noioso letargo invernale. Così negli ultimi giorni abbiamo messo il becco fuori di casa un po' più spesso di quanto facciamo di solito e siamo andati qua e là, quando non avevamo voglia di stare in casa. E come spesso capita nelle sagre di paese, abbiamo visto qualche concerto di gruppetti locali, spesso composti da liceali o poco più (come età, intendo).
A questo punto entra in scena la nostalgia, e mi viene da ripensare ai Black Riders (nome un po' tamarro, è vero, ma ispirato pur sempre a un album di Tom Waits), il gruppo che fondammo io e due miei compagni di classe tra il terzo e il quarto anno di liceo (ovvero tra il 1995 e il 1996, se la memoria non mi inganna). Io cantavo, Cubo suonava il basso, Mais la tastiera. La formazione si completò poi con Stefano e Diego alle chitarre, e Camma alla batteria. Ho un ricordo piuttosto vivido soprattutto delle prime maldestre prove nella sala-prove di Canale, situata nelle ex-scuole vecchie di Canale. Ricordo qualche ceres rossa così per sciogliersi, i fogli con i testi sparpagliati nel mio solito zaino, una valanga di sogni e ambizioni.
A pensarci ora, era evidente che non fossimo fatti per durare. Avevamo gusti musicali abbastanza diversi e diversi modi di intendere lo stile del gruppo, per cui si andò lentamente ma inevitabilmente incontro alla formazione di correnti interne che minarono un po' la solidità del gruppo. Il debutto all'"Happening" del liceo fu abbastanza orrendo, anche se divertente... se ricordo bene suonammo solo tre pezzi: il classico blues Crossroads di Robert Johnson (ma credo nella versione di Eric Clapton, visto che Stefano, il chitarrista, era un claptoniano convinto), Whole lotta love dei Led Zeppelin, e infine un pezzo strumentale ripetitivo in cui addirittura mi azzardai a suonare il quartino (con che coraggio non lo so... aaah... il bello dell'adolescenza). Io probabilmente sbagliai tutti i tempi, perché mancavo e manco tuttora del benché minimo senso del ritmo, ma i concerti successivi andarono meglio. Canale, Neive e Castagnito sono quelli che mi ricordo meglio e che mi sono rimasti più impressi. Con il tempo inziavo a cantare meglio e a divertirmi sempre di più sul palco, e a mio modo davo spettacolo. Gran parte dei pezzi che suonavamo erano degli stra-stra-stra-classici... Cocaine, Comfortably numb, Smoke on the water, Have you ever seen the rain. Personalmente, però, l'idea di cantare dei pezzi che suonavano già altri diecimila gruppi non mi andava molto. Allora io amavo Nick Cave, Tom Waits, P.J. Harvey... cose non proprio di nicchia, però già un po' meno classiche, per una cover band. In realtà amavo molte cose in quel periodo... dalla world music di Peter Gabriel alla scena alternativa italiana, che proprio in quegli anni conobbe una breve stagione fiorente, per quanto, in alcuni casi, un po' sopravvalutata (da me per primo). Insomma, io conoscevo due o tre cose e già mi credevo un esperto di musica, e questa mia ingenua presunzione suscitava in me ambizioni che stridevano, tanto per fare un esempio, con quelle di Stefano, che invece era il tipico chitarrista blues-rock, bravissimo ma un po' fissato sui suoi generi (e sui suoi assoli). Col senno di poi, potevamo prendercela più rilassatamente e goderci più a lungo possibile la fantastica ebrezza di salire sul palco, invece di finire come una brutta copia dei Commitments. Facemmo in tempo a scrivere una canzone nostra (con un mio orripilante testo simil-maudit), prima di naufragare definitivamente sulla soglia dei diciott'anni.
Oggi, a trentun anni, guardo questi gruppetti così simili a noi e mi chiedo quanto dureranno, prima di montarsi la testa ed essere smembrati da divergenze di gusti, incomprensioni, presunzioni, impegni, mancanza di tempo e di voglia. Però mentre sono lì sul palco li invidio un po'.
Per quanto fossimo ridicoli, gasati, ingenui e cronicamente adolescenti, lo rifarei in ogni mia vita successiva.

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